DALL’AMBIENTE A BERLINO. Ci sono tre candidati alla guida della Democrazia Cristiana tedesca, ognuno con tante e diverse qualità, e un difetto comune: non è lei. Che ieri si è presentato al congresso – il primo in formato digitale nella storia della CDU, l’ultimo della sua Cancelleria – con la solita serietà, appena abbellito da un girocollo in ambra baltica, in tono con la giacca bordeaux.
Nemmeno nove minuti di discorso sono bastati ad Angela Merkel per fare il punto sugli ultimi sedici anni: “Dal 2005 (anno della sua elezione) il mondo è cambiato molto, c’era ancora Nokia e non c’erano smartphone, social network. non esisteva, la Cina era un’economia in difficoltà, la Germania aveva un record di disoccupati, non c’erano bonus per asili nido e congedi parentali ». Un breve giro di cifre, rivendicato non come un successo personale, ma come risultato di un’azione comune dal governo e dalla CDU. Piccolo “io” – tranne quando ha ricordato la fine del suo mandato – molti “noi”: “La CDU si è sempre fatta carico delle sue responsabilità e la sua forza è sempre stata quella di mettere le persone al centro”.
Dopo Angela Merkel, le cose possono solo peggiorare. Ne è convinta la maggioranza dei tedeschi, lo dichiara nelle urne – l’ultima quella dell’Istituto Forsa commissionato dal quotidiano economico Handelsblatt – e ne parla con le stesse fatali dimissioni in famiglia, al lavoro, per strada. “La Merkel vuole un mega blocco”, titolava ieri il tabloid di Bild. “Ma se lo dice la Merkel, vuol dire che si può fare, anzi si deve fare”, è la stessa risposta che ci dà un tassista, una maestra d’asilo e la commessa di un supermercato, una delle categorie più colpite. della pandemia. che lamentano il ritardo nei rinfreschi, l’impossibilità di tornare a insegnare (dal 3 dicembre nessuno va a scuola in presenza, nemmeno i più piccoli) e il ritardo nelle vaccinazioni. Ma nessuna di queste critiche è rivolta alla cancelliera, che dall’inizio dell’emergenza sanitaria ha raggiunto l’apice della popolarità tra i suoi concittadini.
È strano? No. È piuttosto il segreto di 16 anni della Merkel: essere in grado di spostare la politica su un binario più alto, capace di unire le persone anche quando sono in disaccordo su questo o quello. E gestire il passaggio, nelle fasi di malcontento, con la fermezza di chi ha in mente il punto di arrivo, e quindi non si sofferma sulle stazioni intermedie. Così sono stati gli ultimi sei mesi di presidenza tedesca: Recovery Fund? Portato a casa. Brexit? Accordo trovato. Accordo commerciale UE-Cina? Firmato. In mezzo c’erano gli ungheresi ei polacchi di traverso, gli inglesi che minacciavano il no-deal, i cinesi che dettavano le condizioni, ma nessuno li ricorda più, i risultati restano.
La stessa cosa è successa con l’uscita dal nucleare, fortemente voluta dalla Merkel nel 2011 contro il proprio partito. Oggi è un dato di fatto, ma quanti ricordano che quella decisione all’epoca valse loro la condanna dell’establishment economico tedesco, un crollo del sostegno elettorale e persino l’ironia di Günter Grass, che parlava del rischio di “un ecologico dittatura”? Ieri Angela Merkel è tornata da noi: «Tra le sfide che ci aspettano c’è quella di rispondere alle preoccupazioni dei giovani, trovando un equilibrio tra economia ed ecologia».
Tra quei critici c’era anche Friedrich Merz, uno dei tre candidati alla guida della CDU, da sempre oppositore del Cancelliere, e oggi l’incarnazione della CDU che la Merkel ha decostruito pezzo per pezzo, allargandola al sinistra (a volte cannibalizzando i socialdemocratici), rendendolo un partito meno reazionario, più aperto, e ieri ha ribadito sottilmente: “La CDU rimane un partito popolare di centro che supera i conflitti e persegue la coesione della società”. Non era così prima di lei, e non significa che continuerà ad esserlo dopo di lei.
La Merkel ha tenuto insieme Oriente e Occidente, facendosi riconoscere dai primi – nello stile, una certa goffaggine, la propensione per elenchi, dettagli, schemi – e prevenendo la prevaricazione dei secondi – con la capacità di lavorare, lo studio dei dossier, la padronanza dei tecnicismi. Ed è stata in grado di contrastare le rivalità interne con la proiezione esterna: quante volte i tedeschi hanno dovuto riprendersi le critiche di lei – decide da sola, è machiavellica, poco più che un’amministratore di condominio – davanti alle copertine del Times, le foto dei leader internazionali in cui si trovava fino a Putin ed Erdogan, a Berlusconi e Sarkozy, alle ultime immagini iconiche che lo hanno reso l’anti-Trump per eccellenza?
Armin Laschet è probabilmente il candidato più in linea con l’ecumenismo della Merkel, in più è simpatico, i suoi elettori come lui, si circonda di persone intelligenti (tra cui l’attuale ministro della Salute Jens Spahn, a cui potrebbe concedere l’onore della candidatura per la cancelleria se fosse eletto a capo della CDU). Ma è fragile in politica economica e molti lo criticano per non avere idee chiare sull’ambiente e sull’ecologia.
Competenze che invece appartengono, insieme ad un’ottima conoscenza di politica estera, al terzo sfidante, Norbert Röttgen, che sta crescendo a favore del popolo ma che è certamente sconosciuto ai più.
Nell’ultimo passaggio del suo intervento, la Merkel ha messo in difficoltà anche i suoi esegeti più attenti: «Cosa intendeva quando desiderava la squadra dei contendenti? Alla fine a vincere sarà uno, non una squadra ”, ha osservato l’analista parlamentare di Zdf TV al termine della prima giornata di congresso. “Forse era un richiamo all’unità – ha risposto un collega – nel senso che chi non vince deve essere accanto a chi vince”.
Se ne è discusso a lungo nei talk show politici serali, senza giungere a una conclusione precisa. L’unica prova plastica è che tre uomini, tutti rigorosamente occidentali, non saranno sufficienti per fare una sola donna orientale. Quelloun.