Martedì (26 aprile) i legislatori italiani hanno adottato una riforma del sistema giudiziario il cui obiettivo principale è prevenire una ricaduta tra magistratura e politica, che lede l’immagine di indipendenza dell’istituzione.
La riforma, che doveva ancora essere approvata dal Senato per entrare in vigore, prevede numerose restrizioni per magistrati, pubblici ministeri e magistrati che vogliano entrare in politica, fenomeno comune in Italia.
Ad esempio, un giudice che desidera candidarsi alle elezioni parlamentari nazionali, regionali o europee come deputato al Parlamento non può farlo nella regione in cui ha prestato servizio negli ultimi tre anni. Un giudice che si candida a sindaco non può sopportare di avere o meno giurisdizione su quel comune negli ultimi tre anni.
Per gli eletti la carriera del giudice finisce e non c’è più alcuna prospettiva di ritorno. Per coloro che non sono stati eletti, invece, resta fermo per tre anni l’esercizio delle funzioni giudiziarie sia nella circoscrizione in cui si sono candidati alle elezioni sia nelle circoscrizioni in cui hanno esercitato in precedenza.
Questa riforma, che riguarda principalmente le funzioni dei giudici, si inserisce in una più ampia riforma del sistema giudiziario italiano, purtroppo noto per la sua lentezza, che è stata richiesta dalla Commissione a Bruxelles affinché Roma possa beneficiare dei fondi europei di risanamento di di cui l’Italia è il principale beneficiario di 191,5 miliardi di euro.
Secondo la Valutazione dello Stato di diritto in Italia condotta dall’Unione Europea nel 2021, il livello di percezione dell’indipendenza della magistratura nel Paese è basso. Solo il 34% dell’opinione pubblica lo considera “abbastanza buono o molto buono”, rispetto al 54% che lo considera “giusto o molto cattivo”.
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