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A trent’anni da “Mani pulite”, l’Italia ancora sotto il giogo della corruzione

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Matteo Renzi denuncia un processo mediatico. Alla giustizia interessano le manipolazioni finanziarie legate alla fondazione Open, vicina all’ex premier. Quest’ultimo ei suoi collaboratori, ex ministri e sottosegretari di Stato, rischiano l’incriminazione per corruzione e finanziamento illecito. L’accusa mirerà dalla prima udienza di aprile a provare la natura politica delle attività di Open, i suoi legami con il Partito Democratico e quindi la violazione dell’obbligo di trasparenza imposto ai partiti politici.

La vicenda è esplosa trent’anni dopo l’inizio dell’Operazione Mani Pulite. L’inchiesta ha rivelato un vasto sistema di corruzione che coinvolge tutti i leader politici ei principali imprenditori del Paese. Nel 1994 le indagini provocano la caduta della prima Repubblica, la scomparsa dei principali partiti e l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, inizialmente risparmiato dallo scandalo. Il panorama politico ed economico è cambiato radicalmente, ma gli atti di corruzione non sono ancora scomparsi.

“Radici profonde”

Secondo un sondaggio pubblicato il 13 febbraio sul settimanale Caffè espresso, quasi l’80% degli italiani è convinto che “la corruzione in politica sia l’immagine speculare della società italiana”. Il fenomeno «sembra avere ancora radici profonde, ma è certamente molto diverso», commenta Alberto Vannucci, docente di Scienze politiche all’Università di Pisa. I principali partiti politici oggi non sono più coinvolti in una gestione unitaria di un sistema di redistribuzione delle risorse sottratte alla collettività e allocate all’interno dei loro circuiti di corruzione.

Negli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, la corruzione era invece “sistemica, organizzata” a livello locale e nazionale, ricorda. Alberto Vannucci dedica parte della sua carriera allo studio di questa realtà. Da oltre dieci anni è titolare del Master interuniversitario in Analisi, prevenzione e lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione. “All’epoca, le tangenti venivano scambiate senza nemmeno chiedersi perché”, continua. Non era la somma di tanti episodi isolati ma un modello di comportamento: gli imprenditori sapevano di dover rispettare determinate regole, di dover pagare la pubblica amministrazione e la politica per ottenere licenze o appalti pubblici.

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Questo sistema era organizzato attorno a tesorieri, rappresentanti di partito, sia di maggioranza che di opposizione, ed emissari di cartelli commerciali. Gli imprenditori hanno condiviso appalti pubblici dopo aver pagato tangenti che le parti si sono divise. I magistrati hanno scoperto questa organizzazione dopo l’arresto, il 17 febbraio 1992, di Mario Chiesa, esponente del Partito socialista milanese. Il politico, proprietario di una casa di riposo, aveva ricevuto una tangente di 7 milioni di lire, pagata dal dirigente di una piccola azienda per assicurarsi la vittoria del concorso pubblico per le pulizie dell’ospizio. Ma stanco di dover pagare, questo appaltatore aveva denunciato i fatti alla polizia.

Rapporto opaco tra magistratura e politica

Gli inquirenti ricostruiscono un sistema che risale ai vertici dello Stato. Lo scandalo coinvolge in particolare il governo di Giuliano Amato e il segretario del Partito socialista Bettino Craxi. I politici sono aspramente contestati mentre aumenta la popolarità del magistrato Antonio Di Pietro. Lascia la magistratura a meno di tre anni dall’avvio delle indagini e diventa ministro dei Lavori pubblici di Romano Prodi. La sua carriera politica lo ha portato anche sui banchi della Camera dei Deputati, del Senato e del Parlamento Europeo. E pone un problema, ereditato da “Mani pulite”, che l’Italia ancora oggi non riesce a risolvere: quello dell’opaco rapporto tra magistratura e politica.

La riforma della giustizia fortemente voluta dal presidente del Consiglio Mario Draghi prevede così di bloccare il fenomeno delle “porte girevoli”. Una volta approvato il testo, un magistrato non potrà più ricoprire contemporaneamente cariche politiche o candidarsi in una regione dove ha lavorato nel triennio precedente. E gli sarà vietato riprendere la professione dopo un mandato elettorale o governativo. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia vuole una magistratura “più dura con se stessa” e spera di proteggere “i tanti giudici che lavorano in silenzio”.

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Questi ultimi stanno ora combattendo contro nuove forme di corruzione. Questa alterazione interferisce ancora ovunque in Italia, nell’organizzazione dell’Esposizione Universale del 2015 a Milano come nella costruzione del Mose, la gigantesca diga della laguna veneta; nelle indennità per far fronte alla crisi sociale ed economica causata dalla pandemia come negli aiuti immobiliari stanziati lo scorso anno dal governo Draghi. La corruzione è ormai “policentrica”, afferma il professor Alberto Vannucci. E la pratica della corruzione è sempre più difficile da riconoscere. I magistrati faticano ancora, ad esempio, a individuare il finanziamento di fondazioni legate ad alcuni protagonisti politici. La struttura Open di Matteo Renzi, che il ricercatore non cita, è oggi l’esempio più eclatante.

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